domenica 31 gennaio 2010

UN CAPODANNO DA .... GUINNES !!!




Dublino è inbubbiamente una capitale da guinnes, sia perchè è la prima associazione che ci viene in mente se pensiamo alla città irlandese, poi per la sua gente che ha una gentilezza e un'ospitalità da guinnes, per la bellezza dei suoi pub, per la funzionabilità dei mezzi, per la vivibilità della città e per tante altre cose. una capitale veramente speciale tutta da vivere e di cui è facile innamorarsi al primo colpo. Il capodanno poi è tutta una festa senza casini risse o cazzate varie e senza l'obbligo di fare per forza le 6 della mattina o di dover fare qualcosa di speciale ..... lì tutto è semplicemente speciale!!!!

rocker del decennio ??


pensando agli anni 00 e a quel che più mi è rimasto il mio pensiero in primis va a joshua homme. musicalmente penso che nessuno più di lui ha impresso un marchio indelebile nella musica del primo decennio del nuovo millennio. già re dei 90 ha marchiato anche i 00 con la sua musica e i suoi kyuss ma è in quest'anni che ha raggiunto il top, qualsiasi gruppo ha fondato, queen of the stone age, eagle of death metal, e gli ultimi crooked voltures sono tutto il meglio che la musica rock ha partorito ultimamente. quindi augurandogli lunga vita sentitamente ringrazio. GOD SAVE THE QUEEN ( OF THE STONE AGE...... ovviamente!!!! )

giovedì 28 gennaio 2010

Mucci... NOOOOOOOOOOOOOOOO!




Perdonate il pathos da confessionale: mi sono commosso vedendo il nuovo film di Muccino. Mi sono commosso e me ne vergogno un po’. Sì, perché la commozione - che mi ha assalito con la violenza pulsante di un conato di vomito - era spinta dal sentimento più vero ma per il motivo sbagliato.

Mi spiego. Nel finale di «Baciami ancora», sequel del fortunatissimo «L'ultimo bacio», in una vertigine di montaggio, si assiste a due parti simultanei.

La macchina da presa fa fronte al trauma della nascita. S’inquadra in pieno l’infante che impara a respirare nel suo primigenio istante d'asfissia. E di cos'altro ti vuoi commuovere, mi si dirà, se non del dramma del venire al mondo? D'accordo, ma il fatto è che a spremermi la lacrima è stato il gesto di esultanza di uno dei padri che assiste al parto. Quel padre esulta con i pugni stretti, rovesciati verso l'alto e con i gomiti flessi. E' il gesto del tifoso che saluta il gol del suo campione. Trasposto in sala parto, è il gesto del tardo adolescente imprigionato nel corpo dell'adulto. Un adolescente che scalpita, boccheggia, lotta per non morire nell'istante in cui le circostanze della nuova vita imporrebbero al suo ospite adulto di sbarazzarsi definitivamente di lui.

Non si tratta qui della proverbiale sindrome di Peter Pan - l'eterno bambino che non vuole crescere - ma di quella dell'adolescente intrappolato nella drammaturgia del sabato sera, la sindrome dell'eterno ripetente che si aggrappa ai banchi del liceo perché di crescere proprio non gli riesce. Rivelatore a questo proposito un errore categoriale in apertura del film: prima la voce fuori campo nomina la tanto procrastinata maturità e subito dopo uno dei personaggi sbeffeggia l'amico diagnosticandogli una «crisi di mezza età». Ma da quando queste due stagioni della vita coincidono?! Chi fine ha fatto l'età adulta, l'asse mediano su cui muovere con sicurezza i propri passi dopo essersi accertati della propria esistenza, che ne è stato di quella stagione vigorosa cui un tempo si accedeva subito dopo aver valicato la dorsale dei vent'anni, dopo essersi lasciati alle spalle l'età fragile dell'adolescenza, l'età inquieta della prima giovinezza, che fine ha fatto insomma l'età forte?

E non cambia granché il constatare che la soglia d'ingresso nell'età adulta è slittata in avanti (oggi hanno già quarant'anni gli eterni bamboccioni di Muccino). La domanda permane. Dov'è finita l'età adulta? Che sorte è toccata a quel momento meridiano in cui le donne e gli uomini, avendo assodato il proprio posto nel mondo nella lunga fase di propedeutica alla vita, avrebbero poi cercato di dare la propria unghiata alla crosta della terra, volgendosi a ciò che gli sarebbe sopravvissuto? A che età comincia oggi l'età in cui il melodrammatico indietreggia di fronte al serio, il piacere tributa il proprio ipocrita omaggio al dovere, in cui il passo si fa più lento e l'incedere più imperioso? Quando viene il tempo del lavoro, del decoro, del ponderato affanno e del giusto ristoro? Quando arriva, oggi come oggi, il momento di piantare l'albero?

Muccino sembra rispondere che oggi quel momento non viene. Semplicemente non viene. Ed è la sua una risposta che va presa sul serio perché è la garrula risposta di buona parte della nostra società. La facezia che non ci seppellirà un giorno lontano perché già ci seppellisce qui nel quotidiano. Sarà per questo che nel film di Muccino il massimo dell'euforia è vivere alzandosi la mattina senza sapere cosa farai la sera, che i momenti felici si ambientano nei campi di grano del Mulino Bianco, che i malori improvvisi sono sempre dovuti all'impalpabile stress e mai al materico tumore maligno, sarà per questo che ci sono centinaia di scene madri e nessuna vera madre, bambini senza padri e padri senza, punto e basta, che la protagonista femminile è la bella della classe ma la classe è quella liceale, che il protagonista maschile ha il fisico e la vocazione del maschio fascista ma gliene mancano letteralmente le palle (diagnosi tardiva da spermatozoi lenti), sarà per questo che la vita coniugale è solo nevrosi sentimentale, che il concepimento dei figli è sempre e solo il catalizzatore delle reazioni isteriche e l'amore, nominato senza sosta e senza costrutto, non manca mai di far risuonare la nostra frase senza senso?

Questa, insomma, l'ideologia del giovanilismo forzoso messa in scena abilmente da Muccino: la visione del mondo in cui la maturità non ha cittadinanza perché coincide senza resti con la crisi di mezza età, un mondo in cui non c'è spazio per l’età adulta.

Ed è un peccato perché è soltanto allora che si scopre quella rude specie di felicità che vuole la compostezza del gesto solenne. Come alla nascita di un figlio quando ti commuovi - eccome se ti commuovi! - perché nel suo volto vedi il futuro. Un futuro in cui tu non ci sei. Eppure lo benedici facendo di sì con la testa.
Antonio Scurati, da La Stampa

martedì 19 gennaio 2010

Cosa salvare degli anni zero #3

Se hai paura è uno dei migliori abum indie-rock nazionali dei '90, le piccole iene sono la pietra miliare degli zero. Perfeta coniugazione di maturità artistica, coerenza ed innovazione.

Afterhours - Ballate per piccole iene (2005)

La mamma del tassista



Non è solo l’onestà che colpisce, è la costanza. La costanza nel voler fare a tutti i costi la cosa giusta. Mukul Asudazzaman è un tassista bengalese a New York City. Una pensionata italiana, Felicia, dimentica sulla sua vettura i 21.000 dollari che devono finanziare il viaggio transoceanico dell’intera tribù familiare. Possibilità di rivederli?, domanda affranta alla polizia. Sottozero, signora. Alla fine del turno Mukul trova il tesoro sul sedile posteriore. Conta i soldi dieci volte, perché così tanti non ne ha visti mai. E nel contarli trova un indirizzo di Long Island, ottanta chilometri di tangenziale. Ci torna tre volte, prima di incontrare qualcuno. Ore e ore di vita, e almeno un pieno di benzina. La costanza. Anche nel resistere alle tentazioni.

Finalmente gli aprono. È una parente, alla quale il bengalese - buono sì, mica scemo - non dà i soldi, ma un biglietto per la loro proprietaria: «Non preoccuparti, Felicia, li terrò al sicuro io». Felicia torna a casa e pensa, nell’ordine, a uno scherzo, a un ricatto, a un miracolo. Decide di rischiare e chiama Mukul. Il tassista ripercorre un’altra volta gli ottanta chilometri e consegna i 21.000 dollari all’italiana. Lei ne toglie mille dal mucchio per darli a lui, che li rifiuta e quasi si offende. «Quando avevo cinque anni mia mamma mi disse: sii onesto, lavora sodo e salirai di livello». Poi non va sempre così. Ma di sicuro si sale: se non nella carriera, nella considerazione di se stessi. Grazie alla mamma di Mukul per quel che ha insegnato. E grazie a Mukul per come lo ha imparato.

Massimo Gramellini, La Stampa 14/1/2010

giovedì 14 gennaio 2010

Thinking Lebowsky





Giorgio Falco per "la Repubblica"

A distanza di oltre un decennio, "Il grande Lebowski" è uno di quei film che ancora segnano l´immaginario. Negli Stati Uniti si svolge da anni il Lebowski Fest a Louisville, Kentucky, una celebrazione che ospita visioni collettive del film, visite degli attori protagonisti, oltre alle bevute in accappatoi e alle camicie hawaiane, ovvero il look tipico di Lebowski; un raduno - diventato itinerante - di persone in gilet da cacciatore goffo e bermuda paramilitari, emuli di Walter Sobchak, uno dei due amici di Lebowski.

Dal 1998, data del film, sono usciti articoli e saggi che hanno analizzato il mondo Lebowski in ogni particolare. L´ultimo libro appena pubblicato si intitola "The Year´s Work in Lebowski Studies" (Indiana University Press), raccolta di articoli che spaziano dal modo corretto di preparare il White Russian - il cocktail preferito da Lebowski - all´eventuale carattere zen o trozkista del personaggio.

Jeff Dude Lebowski si inserisce nella galleria di marginali sballottati dalla vita, personaggi che ispirano simpatia, fino alla nostra immedesimazione: come Bluto Blutarsky-Belushi di "Animal House", oppure i fratelli Blues-Belushi & Aykroyd in "The Blues Brothers" - o, nella tipologia di marginali ma integrati - i nerds de "La rivincita dei nerds", dove un gruppo intero di secchioni dimessi - i nerds appunto - era schiacciato dalla prepotenza fisica e psicologica di un altro gruppo universitario, gli Alpha Beta.

L´anomalia del film, girato nel 1984, in piena epoca reaganiana, era proprio questa: i nerds, gli sfigati marginali e integrati, dopo il college avrebbero avuto ruoli da futuri, probabili vincenti, così come i componenti dell´altro gruppo, per lo più giocatori di football.

Lebowski invece è lontanissimo, anche e non solo per ragioni anagrafiche, dai cliché della commedia goliardica universitaria. Il film dei fratelli Coen inizia con uno scambio di persona: esiste un altro Jeff Lebowski, uomo ricco, il contrario di Jeff Dude Lebowski, il vero Lebowski, il nostro Lebowski, che fuma piccole sigarette d´erba, beve cocktail, gioca a bowling con gli amici, gironzola prima di tornare al suo divano mezzo sfondato.

Carismatico senza essere prevaricatore, Lebowski, disilluso personaggio di mezza età, raggiunge un equilibrio nell´incedere traballante e rinunciatario, attraversa il devastato paesaggio californiano sul bordo del sottofondo bellico televisivo, durante la Prima Guerra del Golfo.

Lebowski sopravvive sospeso, a una velocità esistenziale ridotta, quella che abbiamo perduto o non avremmo mai il coraggio di vivere se non nell´immedesimazione con il personaggio, ma anche se ripetiamo a memoria le battute di un film, troviamo solo una forma effimera di euforica condivisione, un gioco solitario di citazioni riconoscibili e sterili, perché la citazione, collettiva e condivisa, è anche la sublimazione di un atteggiamento passivo: arriva dopo un´invenzione, una trovata che collima alla perfezione e annulla il nostro punto di vista dentro i personaggi.

Il regista e gli sceneggiatori, ancor prima che il film diventi di culto, impongono quelle che ci sembrano intuizioni eccezionali. Tony Manero che cammina. Vincent Vega e Mia Wallace che ballano. Bluto Blutarski che spacca la chitarra. Jesus Quintana che lecca lentamente la palla da bowling, proprio in una scena celeberrima de "Il grande Lebowski".

Ma la lingua al rallentatore, gli occhi socchiusi, sono espedienti palesi, ci dicono in modo evidente: questo è già mitico nel momento stesso in cui lo giriamo! In casi del genere non è neppure fondamentale ciò che noi guardiamo o citiamo, la cosa più importante è stare lì, dentro il flusso filmico tramutato in preghiera, aderire al rito che ogni volta si ripete e riappropriarci di una parte delle nostre vite.

Se resistessimo alle immagini significative già pronte per i trailer e la selezione scene nei dvd, proprio i personaggi marginali potrebbero sorprenderci offrendosi con lievità, venirci incontro per condividere il loro destino con il nostro.

Come Nick Longhetti-Peter Falk, quando, in "Una moglie" di John Cassavetes, alla fine del turno si cambia nel furgone in movimento, assieme agli altri lavoratori della cava, e parte verso casa insieme ai suoi colleghi, su auto piene di eccitazione ed entusiasmo doloroso, auto che nella splendida inquadratura posteriore tracciano traiettorie sghembe, quasi si incrociano e sollevano polvere, prima di uscire dallo schermo, per incontrare la moglie di Longhetti, la convalescente Mabel Mortensen-Gena Rowlands. Ecco, noi siamo quelle teste assiepate nei finestrini, siamo Gena Rowlands spossata, che sente i clacson striduli e le grida momentanee di gioia.

Esistono ancora - sebbene sempre più invisibili - opere quasi ignorate, che rifuggono dal gesto eccezionale, indimenticabile, e non si accontentano di indurre all´immedesimazione, alla rappresentazione: aspirano allo svelamento, al raggiungimento, forse, di un approdo.

mercoledì 13 gennaio 2010

Cosa salvare degli anni zero #2

"Esta es la radio que saco a toda estacion donde el rock vive y no muere, vamos a escuchar un par de temas de Queens Of The Stone Age, ..."

Il rock è ancora vivo sotto la cenere.... anzi sotto la sabbia rovente del deserto della California!

Queens of the stone age - Songs for the deaf (2002)

martedì 12 gennaio 2010

Piaga Povia




Ormai è un cantante-locusta, che come le bibliche piaghe d’Egitto invade ciclicamente Sanremo. Folgorato sulla via del Darfur, il trentasettenne Povia sarà ancora all’Ariston. Molti ne avrebbero fatto a meno, ma verosimilmente le colpe pregresse del genere umano sono tante. E da qualche parte si deve pur cominciare a espiare.
Un anno fa c’era stata la pentecoste collettiva con Luca era gay, che centrifugava le teorie di Joseph Nicolosi e i patemi di Julien Lowe, il poliziotto di Shield, con un’apertura mentale al cui confronto l’onorevole Binetti è un eteronimo di Giovanna d’Arco. Nel brano, dal testo profondo come il Tanaro in secca, «Luca era gay / Ma ora sta con lei», dimostrando come l’omosessualità sia qualcosa di resettabile con dedizione e dolore (premio il regno dei cieli, o anche soltanto un’ospitata dalla Balivo).
Si apprende ora che Povia, fluttuante come il miglior Capezzone, porterà a Sanremo La verità, canzone pro-eutanasia che parte da una lettera di Eluana Englaro. Nuove e magnifiche sorti progressive ci attendono: così come Luca era gay fu deificata dai teocon, vedremo forse adesso la sinistra appropriarsi del compagno Povia.
Lui dice che è compito dei cantastorie raccontare il presente, per i detrattori è solo uno che cavalca cinicamente la cronaca. Lapidario il suo ex manager, Angelo Carrara: «Troppe cose di cattivo gusto. Si è messo a fare De André, ma non ha spessore». Un po’ come se Neri Parenti si mettesse a fare Kubrick: mancherebbe molto più dello spessore.
Povia è l’involuzione ultima del cantautorato. Un piluccare qua e là, questuando ispirazione dai fatti più morbosi, fino a generare liriche artisticamente impalpabili (a volergli bene) e al contempo massima esposizione mediatica. Dalla canzone d’autore al cronachismo senza spessore. Sei anni fa condannava la bulimia, nel 2005 cantilenava che I bambini fanno ooh (e chi lo ascoltava faceva ronf). Nel 2007, in prima fila al Family Day, sentenziava che i «Dico» avrebbero tolto soldi alle famiglie tradizionali. Venne quindi il vangelo di Luca. E ora la svolta para-bolscevica dell’eutanasia-sì.
Quali saranno le prossime mosse del novello Cristino D’Aveno? Un appello per la liberazione dei nani da giardino? Una tirata sugli stenti del facocero del Corno d’Africa? Un inno per la crisi spirituale degli scimpanzè camerunensi? Frementi e bramosi, attendiamo.

di Andrea Scanzi, La Stampa 28/12/2009

venerdì 8 gennaio 2010

Siberia Italia

È nelle notti più serene d'inverno, quando il barometro segna alta pressione, l'aria è secca e il vento si ferma, che i "freddofili" entrano in azione per provare che in Italia il gelo può diventare cattivo come in Siberia. Era la notte del 9 gennaio 2009 quando nella Busa di Manna, a 2.550 metri sull'altopiano delle Pale di San Martino, il loro termometro scese a meno 43,8 gradi.
Più freddo ancora di quel 41 sotto zero che nel 1929 venne registrato sul Monte Rosa alla Capanna Regina Margherita. "Record italiano di freddo" esultano i freddofili, che si chiamano così per far capire - se serviva - che amano il gelo, ma a dispetto del nome lavorano per un progetto serissimo in collaborazione con gli istituti meteorologici di Veneto e Friuli e con il sostegno del Cnr.
Si tratta di capire perché all'interno delle doline (grandi depressioni nel terreno, frequenti soprattutto nei territori del Nordest) la temperatura scende in picchiata. Un fenomeno che non è un segreto: già i soldati durante la Grande guerra (e i montanari prima ancora) usavano portare gli alimenti là in fondo, dove il gelo aiuta la conservazione. Ma solo negli ultimi anni questi "frigoriferi naturali" sono stati studiati con metodo scientifico. E c'è ancora molto da scoprire.
Capita così che appassionati come il trentino Giampaolo Rizzonelli, responsabile del "progetto doline" per Meteotriveneto, escano nelle notti più fredde dell'anno, quando gli altri si tappano in casa, per misurare il gelo estremo che accomuna alcune località trentine, venete e friulane con gli inferni artici e antartici. E gli abruzzesi della Majella non sono da meno, anche se nell'Italia centrale l'aria gelida è più rara rispetto all'arco alpino.

Per arrivare a -40 servono condizioni ben precise: cielo sereno, bassa umidità, assenza di vento. Quando tutto questo si verifica laggiù nella dolina capita di provare esperienze incredibili, come differenze di 30 gradi centigradi tra il fondo e il bordo della depressione. Oppure aumenti della temperatura superiori ai 20 gradi nel giro di mezz'ora: un'energia termica enorme che si mette in moto e che si fa sentire, in modo sconvolgente, sulla pelle del viso, l'unica che resta scoperta quando ci si avventura nel mondo del gelo, dove il termometro arriva a scendere di un grado ogni metro di profondità.
Attualmente ci sono termometri in 47 "siti freddi" che registrano la temperatura ogni 15 minuti, alimentati da batterie speciali che potrebbero resistere a meno 87 gradi sotto zero, che in pratica è quasi il record mondiale del gelo registrato dai russi nel 1983 in Antartide. Ma a che servono queste misurazioni? Conoscere il fenomeno dell'inversione termica - di questo si tratta - può essere utile a sconfiggere l'inquinamento che nei mesi invernali si verifica nelle vallate di montagna. Ma questo gelo naturale viene sfruttato anche per collaudare - dietro l'angolo di casa - le attrezzature tecniche che possono servire nelle terre dei grandi freddi. Si spiegano così, con l'effetto doline, anche i primati del gelo che fanno registrare numerose località abitate, dall'altopiano di Asiago (nel Vicentino) al pian del Cansiglio (vicino a Belluno), ma anche Malga Millegrobbe in Trentino oppure il valico di Fusine, al confine tra Friuli e Slovenia. In fondo non sono altro che enormi conche nel suolo dove si formano "grandi laghi d'aria gelata", i cui nomi siamo abituati a sentire nei bollettini meteo quando il termometro punta verso il basso.

di ANDREA SELVA, tratto da repubblica.it

giovedì 7 gennaio 2010

Cosa salvare degli anni zero #1

Canzoni a manovella - Vinicio Capossela (2000)

Per me il suo migliore album, è un capolavoro senza tempo, un addio al novecento partendo dal suo principio.

martedì 5 gennaio 2010

Ero indeciso se fare un nuovo blog od utilizzare questo per continuare a scrivere di qualsia cosa mi passi per la mente. Alla fine ho deciso di far rivivere il blob-blog, anche perché credo sia stata un'occasione che non abbiamo saputo comprendere e sfruttare al meglio.... a presto!