giovedì 14 gennaio 2010

Thinking Lebowsky





Giorgio Falco per "la Repubblica"

A distanza di oltre un decennio, "Il grande Lebowski" è uno di quei film che ancora segnano l´immaginario. Negli Stati Uniti si svolge da anni il Lebowski Fest a Louisville, Kentucky, una celebrazione che ospita visioni collettive del film, visite degli attori protagonisti, oltre alle bevute in accappatoi e alle camicie hawaiane, ovvero il look tipico di Lebowski; un raduno - diventato itinerante - di persone in gilet da cacciatore goffo e bermuda paramilitari, emuli di Walter Sobchak, uno dei due amici di Lebowski.

Dal 1998, data del film, sono usciti articoli e saggi che hanno analizzato il mondo Lebowski in ogni particolare. L´ultimo libro appena pubblicato si intitola "The Year´s Work in Lebowski Studies" (Indiana University Press), raccolta di articoli che spaziano dal modo corretto di preparare il White Russian - il cocktail preferito da Lebowski - all´eventuale carattere zen o trozkista del personaggio.

Jeff Dude Lebowski si inserisce nella galleria di marginali sballottati dalla vita, personaggi che ispirano simpatia, fino alla nostra immedesimazione: come Bluto Blutarsky-Belushi di "Animal House", oppure i fratelli Blues-Belushi & Aykroyd in "The Blues Brothers" - o, nella tipologia di marginali ma integrati - i nerds de "La rivincita dei nerds", dove un gruppo intero di secchioni dimessi - i nerds appunto - era schiacciato dalla prepotenza fisica e psicologica di un altro gruppo universitario, gli Alpha Beta.

L´anomalia del film, girato nel 1984, in piena epoca reaganiana, era proprio questa: i nerds, gli sfigati marginali e integrati, dopo il college avrebbero avuto ruoli da futuri, probabili vincenti, così come i componenti dell´altro gruppo, per lo più giocatori di football.

Lebowski invece è lontanissimo, anche e non solo per ragioni anagrafiche, dai cliché della commedia goliardica universitaria. Il film dei fratelli Coen inizia con uno scambio di persona: esiste un altro Jeff Lebowski, uomo ricco, il contrario di Jeff Dude Lebowski, il vero Lebowski, il nostro Lebowski, che fuma piccole sigarette d´erba, beve cocktail, gioca a bowling con gli amici, gironzola prima di tornare al suo divano mezzo sfondato.

Carismatico senza essere prevaricatore, Lebowski, disilluso personaggio di mezza età, raggiunge un equilibrio nell´incedere traballante e rinunciatario, attraversa il devastato paesaggio californiano sul bordo del sottofondo bellico televisivo, durante la Prima Guerra del Golfo.

Lebowski sopravvive sospeso, a una velocità esistenziale ridotta, quella che abbiamo perduto o non avremmo mai il coraggio di vivere se non nell´immedesimazione con il personaggio, ma anche se ripetiamo a memoria le battute di un film, troviamo solo una forma effimera di euforica condivisione, un gioco solitario di citazioni riconoscibili e sterili, perché la citazione, collettiva e condivisa, è anche la sublimazione di un atteggiamento passivo: arriva dopo un´invenzione, una trovata che collima alla perfezione e annulla il nostro punto di vista dentro i personaggi.

Il regista e gli sceneggiatori, ancor prima che il film diventi di culto, impongono quelle che ci sembrano intuizioni eccezionali. Tony Manero che cammina. Vincent Vega e Mia Wallace che ballano. Bluto Blutarski che spacca la chitarra. Jesus Quintana che lecca lentamente la palla da bowling, proprio in una scena celeberrima de "Il grande Lebowski".

Ma la lingua al rallentatore, gli occhi socchiusi, sono espedienti palesi, ci dicono in modo evidente: questo è già mitico nel momento stesso in cui lo giriamo! In casi del genere non è neppure fondamentale ciò che noi guardiamo o citiamo, la cosa più importante è stare lì, dentro il flusso filmico tramutato in preghiera, aderire al rito che ogni volta si ripete e riappropriarci di una parte delle nostre vite.

Se resistessimo alle immagini significative già pronte per i trailer e la selezione scene nei dvd, proprio i personaggi marginali potrebbero sorprenderci offrendosi con lievità, venirci incontro per condividere il loro destino con il nostro.

Come Nick Longhetti-Peter Falk, quando, in "Una moglie" di John Cassavetes, alla fine del turno si cambia nel furgone in movimento, assieme agli altri lavoratori della cava, e parte verso casa insieme ai suoi colleghi, su auto piene di eccitazione ed entusiasmo doloroso, auto che nella splendida inquadratura posteriore tracciano traiettorie sghembe, quasi si incrociano e sollevano polvere, prima di uscire dallo schermo, per incontrare la moglie di Longhetti, la convalescente Mabel Mortensen-Gena Rowlands. Ecco, noi siamo quelle teste assiepate nei finestrini, siamo Gena Rowlands spossata, che sente i clacson striduli e le grida momentanee di gioia.

Esistono ancora - sebbene sempre più invisibili - opere quasi ignorate, che rifuggono dal gesto eccezionale, indimenticabile, e non si accontentano di indurre all´immedesimazione, alla rappresentazione: aspirano allo svelamento, al raggiungimento, forse, di un approdo.

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